Giorgio Bettinelli non c'è più
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Io lo ricordo così ....
Questo è un suo scritto, io lo ricordo così .... E' lungo ma se avete voglia di leggerlo tutto capirete almeno un po' cosa c'è nei suoi libri.
[hr]
Un viaggio di tre anni e otto mesi no stop, da Ushuaia nella Terra del Fuoco a Hobart in Tasmania, con 144.000 chilometri percorsi attraverso novanta nazioni diverse, in cinque continenti… Mi risulta forse più difficile, adesso, metterlo a fuoco nel ricordo e concentrarlo nel racconto di poche pagine di quanto non sia stato, tra l’ottobre ’97 e il maggio 2001, portarlo a termine nella realtà (la qual cosa, a onor del vero, in sella a uno scooter non è stata facile per niente).
Immagini piene di colori o di grigiore mi sfilano davanti agli occhi e si accavallano le une alle altre per incasellarsi senza coesione interna nella memoria: rivedo le distese desolate della Patagonia e i kalashnikov sulle spalle dei ragazzini congolesi o angolani, le dune multiformi del deserto yemenita e l’alcolismo senza speranza degli homeless eschimesi di Anchorage, il luccichio delle pagode birmane e la tavolozza di colori sui vestiti delle donne maya, le moschee color lapislazzulo dell’Iran e i costumi sgargianti del carnevale di Trinidad, le alci sull’Alaska Highway e le capanne col tetto di paglia del Mali.
Rivedo il sudore sulla pelle dei “cavalli umani” di Calcutta e le giacche impeccabili degli agenti di cambio a Singapore; riascolto l’eco dei cormorani sulle spiagge dell’Oregon e il vento delle notti nel Sahara, i canti che accompagnano le cremazioni sui ghat di Benares e le balalaike di un’orchestrina improvvisata a Novosibirsk; riascolto gli spari di una carica della polizia sui dimostranti di Dhaka e le kora ipnotiche dei griots senegalesi, lo sciabordio delle onde sulle rovine dei forti coloniali in Ghana o a Timor e lo squittio dei topi nelle basse case di legno a Kathmandu…
E rivedo la mia faccia cotta dal sole, la mattina del 5 maggio 2001, quando mettevo in posa la Vespa nel porticciolo di Hobart, Tasmania, per una fotografia con l’autoscatto, e mi sforzavo di archiviare mentalmente anche questo lunghissimo raid, che in certi momenti mi era quasi sembrato potesse durare in eterno e che invece si era ormai concluso: avevo tolto i bagagli dai portapacchi, e non ce li avrei più rimessi il giorno dopo. C’ero riuscito; ma come al solito una malinconica “sindrome da arrivo” si accompagnava alla gioia di un “Missione compiuta”, alla soddisfazione di un “I made it, I made it!”.
Era già successo a Saigon, in occasione del mio primo raid in Vespa, dall’Italia al Vietnam, tra il 92 e il ’93; si era ripetuto sulla linea di traguardo del secondo, dall’Alaska alla Terra del Fuoco, tra il 94 e il 95, e poi ancora a Città del Capo, alla fine del viaggio dall’Australia al Sudafrica, 95-96; e adesso sul lungomare di Hobart accadeva la stessa identica cosa: molta gioia e altrettanta tristezza, perché il viaggio era finito.
Sarà vergognosamente sentimentale, ma è proprio così: 144.000 chilometri (che con quelli dei tre viaggi precedenti facevano ormai 254.000) per arrivare a capire una volta di più di non averne ancora abbastanza, di non avere ancora raggiunto una “pace dei sensi” su due ruote; di voler ripartire!
Da quando mi ero lasciato alle spalle Ushuaia, 1340 giorni prima, avevo incrociato otto volte la linea immaginaria dei Tropici e quattro volte quella dell’Equatore; avevo attraversato tutta l’America meridionale e quella centrale, gli Stati Uniti coast to coast, la Siberia, l’Europa e l’Africa dal Marocco a Città del Capo, e poi da lì sulla costa orientale fino a Gibuti; l’Asia continentale dallo Yemen a Singapore, l’Indonesia da Sumatra a Timor, l’ovest dell’Australia da Darwin a Melbourne, e poi l’arrivo in Tasmania, collezionando Capo Horn, Capo Nord, il Capo di Buona Speranza e il South East Cape nel palmares di questo viaggio, con la complicità di settemila litri di benzina (litro più litro meno) e centocinquanta chili d’olio per motori a due tempi.
Avevo congiunto Ushuaia e Hobart via terra, smontando dalla sella soltanto in pochissime occasioni per “guadare” piccoli corridoi acquatici come lo Stretto di Bering o quello di Gibilterra, il Golfo di Aden, lo Stretto di Hormuz e il ponte naturale delle isole indonesiane tra Asia e Oceania, attraversando i sei continenti (con la sola esclusione dell’Antartide… per ora) con una lunghissima e sinuosa linea di pennarello nero sulla mappa del Mondo.
Avevo arrancato a passo d’uomo nel deserto del Sahara in Mauritania e nella taiga siberiana tra Magadan a Jakutsk, nella foresta pluviale in Camerun e sugli sterrati di quella amazzonica; avevo subito un sequestro di tre giorni e un furto generale da parte dei ribelli congolesi sulla strada per Brazzaville e cinque aggressioni: a Medellin, Mosca, Varsavia, in Gabon e in Namibia; un brutto incidente sul confine cambogiano con due mesi di stop forzato e il radio e l’ulna del polso sinistro spezzati come due grissini; ero passato dal caldo soffocante del Messico o dell’Oman al gelo dell’Alaska o della Kolyma, dalla coltre di neve sui Pirenei alla sabbia e alla polvere di Timbuktu, costeggiando l’Atlantico e il Mare Artico, l’Oceano Pacifico e quello Indiano…
Dalla Terra del Fuoco avevo seguito la dorsale della Cordigliera delle Ande, prima nella Patagonia argentina poi sul versate cileno fino a Santiago; poi avevo riattraversato le Ande e la pampa per raggiungere Buenos Aires e Montevideo, e cominciare la lunga galoppata sulla costa atlantica del Brasile, che mi porterà a San Paolo e Rio de Janeiro, Salvador de Bahia e Recife, Belem e Macapà sull’estuario del Rio delle Amazzoni: diciotto stati brasiliani e 7000 chilometri in poco più di cinque settimane.
Poi la Guyana Francese e il Suriname, la Guyana ex britannica e una deviazione a Trinidad &Tobago per trovare il modo di arrivare in Venezuela (non c’è una strada che congiunga via terra Georgetown a Caracas). Tutto il nord della Colombia, con le azioni terroristiche dei guerriglieri che in quella settimana, alla vigilia delle elezioni per la nuova maggioranza legislativa, avevano raggiunto i livelli di una vera e propria guerra civile, e da Turbo su un minuscolo aereo biposto (tanto minuscolo che avevano dovuto togliere il sedile posteriore per fare posto alla Vespa) sorvolare i 200 Km di foresta impenetrabile del Darien, tra Colombia e Panama.
Da lì in avanti, dopo il Costa Rica, attraverso fino alla frontiera col Messico e piccoli stati una volta poveri e incandescenti e adesso soltanto poveri di Nicaragua, Honduras, El Salvador e Guatemala, per farmi raccontare dai loro abitanti qualcosa delle tragedie in cui sono passati recentemente e quelle che sono le loro (poche) speranze per un futuro migliore. Visito il complesso archeologico maya di Tikal, lo spettacolare mercato indio di Chichicastenango in Guatemala, e agli inizi di aprile del ’98, dopo oltre cinque mesi di viaggio, porto le ruote della Vespa nel Chiapas messicano, per proseguire subito in direzione della capitale, di Guadalajara e della frontiera statunitense di Laredo.
Altri due mesi per sbrigare la “procedura” Usa, sulle cui strade ci sono forse troppe comodità per il modo di viaggiare che preferisco, quello fatto di sterrati difficili e di continue “scomodità” che al momento ti sfiancano ma che poi, retrospettivamente, s’impongono nel ricordo e acquistano i contorni di veri highlights all’interno di un itinerario. New York-San Francisco; Seattle-Vancouver, la British Columbia e lo Yukon canadese, l’Alasha Highway fino ad Anchorage.
E lì, nell’ultima settimana di giugno, ricevo l’ennesima “tegola burocratica” sulla testa, la più conflittuale e difficile da risolvere tra quelle che finora avevano accompagnato i miei viaggi in Vespa, scandendoli con una regolarità esasperante. Il visto di tre mesi per la Russia, arrivatomi proprio in quei giorni da Mosca dopo una lunghissima trafila di mezzi dà! e interi nièt!, tra le sue mille clausole scritte rigorosamente in cirillico impone che io sdogani lo scooter soltanto a Mosca o a Pietroburgo, e in nessun’altra città dello sconfinato paese.
Che fare?, o meglio: Shto Diélat?, come nell’omonimo titolo di Chernechevski. Non ho molte alternative, a essere sinceri: o lasciare perdere del tutto la Russia e volare con la Vespa a Tokyo, per riprendere da lì l’avvicinamento all’Europa lungo un percorso totalmente diverso, o volare a Mosca come mi viene imposto e da lì attraversare tutta la Siberia “a marcia indietro” fino a Magadan, per ricongiungere così idealmente, in senso inverso, l’itinerario così brutalmente spezzato da quella rasoiata burocratica; poi rivolare a Mosca e proseguire verso la Finlandia…
Dopo due giorni di frenetiche telefonate in Italia, mi viene consigliato di optare per la seconda soluzione, a dispetto del suo folle zigzagare avanti e indietro attraverso 9 fusi orari (che alla fine diventeranno la bellezza di 26 in poco più di due mesi, 18 in aereo inframmezzati da 8 percorsi via terra!). E così il 3 luglio la Vespa e io atterriamo al Sheremetevo II di Mosca, e ancora con la cintura di sicurezza allacciata intorno alla vita formulo tra me e me una sacrosanta promessa: “A Magadan, quanto è vero Dio!”.
Ci impiegherò 70 giorni, in condizioni climatiche decisamente favorevoli (un’estate siberiana, a quella latitudine, non è più fredda di un’estate nel nord dell’Europa, cioè quasi calda) passando per Celjabinsk e Omsk, Novosibirsk e Krasnojarsk, Ust-Kt e Lensk, Jakutsk e i 2000 chilometri di sterrato allucinante, conosciuti come la Via delle Ossa per l’altissimo prezzo di vite umane pagato alla sua costruzione voluta da Stalin, in una zona tra le più tristi e grigie che ci siano sulla faccia della Terra… ma a dispetto di ciò la bruttissima Magadan, una volta raggiunta, avrà per me le connotazioni di una Terra Promessa!
Di nuovo Mosca, e Capo Nord, e tutto un inverno passato ad attraversare 18 nazioni europee fino ad Algeciras in Spagna e Tangeri in Marocco. L’ex Sahara Spagnolo, Laayoune e Dakhla fino al confine con la Mauritania; poi, da Nouadhibou alla capitale Nouakchott, la pista sparisce tra le dune del deserto per 500 Km, che impiegherò dodici giorni a coprire, con una tanica d’acqua da 25 litri che regolarmente stava finendo quando un buon samaritano francese al volante di una Toyota me la riempirà di nuovo rimettendomi in sesto dopo quattro giorni passati nella più completa solitudine, senza veicoli all’orizzonte: undici notti passate a dormire sulla sabbia, sotto un cielo vitreo bucherellato di stelle.
Una volta a Nouakchott tiro un po’ di fiato e mi preparo a scendere in Senegal, Gambia, Guinea-Bissau (la guerra civile era finita soltanto pochi giorni prima), Guinea-Conakry, Mali e Burkina Faso, per ritornare nuovamente sull’Atlantico ad Accra, in Ghana, dopo aver “costeggiato” per trecento chilometri la tragedia della Sierra Leone (in alcuni punti era la strada stessa a fare da confine) e aver aggirato quella della Liberia. Ancora Togo, Benin, Nigeria, Camerun e Gabon; e poi il mio viaggio sarà interrotto da armi più devastanti di quelle della burocrazia ex sovietica…
Tre giorni di prigionia nelle mani dei ribelli congolesi, e tre notti insonni delle quali ognuna avrebbe potuto essere l’ultima; nulla nello stomaco e solo una brocca d’acqua fangosa gentilmente offertami dai carcerieri insieme a reiterate minacce del tipo: “Preferisci che ti ammazziamo col kalashnikov o a colpi di machete?”, oppure: “Hai ancora un’ora di vita, bianco di m@@@a!”.
Poi, inaspettatamente, il capo dei ribelli aveva deciso di non giustiziarmi, ed ero stato rimesso in libertà per ritornare a piedi alla frontiera col Gabon, senza più niente di quello che avevo, senza la Vespa che mi aveva accompagnato per 76.600 dalla Terra del Fuoco fino a lì, né computer né macchine fotografiche: solo la vita e i jeans che avevo addosso… mi avevano anche tagliato i capelli per farne treccine posticce, naturali e non sintetiche, da regalare alle donne della ribellione!
Tornato in un modo o nell’altro a Libreville, per la serie “le disgrazie non vengono mai da sole”, comincio a tremare nonostante il caldo soffocante, a sudare freddo e sentire convulsioni in tutti i muscoli, a rabbrividire in una febbre parossistica, simile al delirio. Ecco fatto: la malaria!
Ventitré mesi più tardi, tornato in Italia dopo aver raggiunto la Tasmania con un’altra Vespa speditami a Luanda, Angola, e sulla cui sella rimarrò seduto per altri 68.000 Km percorsi in altre 28 nazioni, scrivo un libro che spontaneamente finisce proprio qui, in Congo, con questa brusca cesura di sequestro e malaria nello spazio di pochi giorni; sarà pubblicato nella collana Traveller di Feltrinelli col titolo Brum Brum, 254.000 chilometri in Vespa…
E ce ne sarà un altro, una sorta di “Brum Brum 2”, per raccontare il resto della storia di questa Worldwide Odyssey, di come in meno di un mese ero già perfettamente ristabilito dalla malaria e, pieno di un nuovo entusiasmo, mettevo in moto una Vespa nuova fiammante ed ero di nuovo su due ruote, mentre il recente ricordo della cella di due metri per uno e del coltello a scolpirmi una grottesca acconciatura si stava sbiadendo sempre di più… I capelli, tra l’altro, stavano già ricrescendo!
Per raccontare dell’Angola fino a Lubango, della Namibia e del Sudafrica, del Mozambico e del Malawi, della Tanzania, del Kenya e dell’Etiopia; di Gibuti e dell’arrivederci all’Africa, dopo tredici mesi passati in 30 delle sue nazioni, la metà delle quali in guerra o reduci da una guerra o pronte per entrare in un’altra guerra; del passaggio in Yemen e in un altro continente, e poi l’Oman e gli Emirati; e l’Iran, il Pakistan e l’India, per la terza volta a bordo di uno scooter in dieci anni.
E di un’amore trovato a Kathmandu, una ragazza di Taiwan che prima diventerà mia compagna di viaggio fino a Giakarta, per cinque mesi, e poi mia moglie, e spero per sempre. Per raccontare del Bangladesh, della Birmania e della Thailandia, della Cambogia, della Malesia, di Singapore e dell’Indonesia, dell’Australia e di quel “Missione compiuta!” sussurrato con più malinconia che orgoglio a Hobart, con il viaggio che finiva e la voglia prorompente che ne potesse cominciare un altro.
E intanto ci saranno anche un libro fotografico e un cd musicale con tredici canzoni composte in giro per il mondo, e così i prossimi mesi se ne voleranno via tranquilli, persino piacevolmente. Ma sono sicuro che non passerà nemmeno un giorno senza che io pensi al nuovo viaggio, il quinto, che è già chiarissimo nella mia testa, e che non vedo l’ora di iniziare nella realtà: partenza da Pontedera, marzo o aprile del 2003, e arrivo… a Roma nel marzo o aprile del 2007, dopo essere passato in tutti i 193 stati sovrani di questo nostro piccolo, grandissimo mondo.
Ecco il vero problema per un vespista di lungo raggio: una volta partito non riesce più a stare fermo! Quella gioia ineffabile dell’allontanarsi; quell’arrivare di sera in un villaggio dal nome sconosciuto o familiare, e sapere già che l’indomani sarai in un altro villaggio o città o cittadina, e il giorno dopo ancora in un altro lontano da quello del giorno prima; e la consapevolezza altrettanto ineffabile che tutto questo possa continuare per mesi, per anni, sulle ali di un eterno, immutabile presente, con il viaggio che si fa da solo chilometro dopo chilometro, che si dipana come il filo di una matassa; con la strada che più si allunga e più diventa corta, e più ti si accorcia tra le mani e più vorresti che si allungasse, perché non è ancora abbastanza… Do you know what I mean?
[hr]
No, non lo so cosa volevi dire, perché non ho fatto e mai farò quello che hai fatto tu. Ma posso sicuramente immaginarlo ....
[hr]
Un viaggio di tre anni e otto mesi no stop, da Ushuaia nella Terra del Fuoco a Hobart in Tasmania, con 144.000 chilometri percorsi attraverso novanta nazioni diverse, in cinque continenti… Mi risulta forse più difficile, adesso, metterlo a fuoco nel ricordo e concentrarlo nel racconto di poche pagine di quanto non sia stato, tra l’ottobre ’97 e il maggio 2001, portarlo a termine nella realtà (la qual cosa, a onor del vero, in sella a uno scooter non è stata facile per niente).
Immagini piene di colori o di grigiore mi sfilano davanti agli occhi e si accavallano le une alle altre per incasellarsi senza coesione interna nella memoria: rivedo le distese desolate della Patagonia e i kalashnikov sulle spalle dei ragazzini congolesi o angolani, le dune multiformi del deserto yemenita e l’alcolismo senza speranza degli homeless eschimesi di Anchorage, il luccichio delle pagode birmane e la tavolozza di colori sui vestiti delle donne maya, le moschee color lapislazzulo dell’Iran e i costumi sgargianti del carnevale di Trinidad, le alci sull’Alaska Highway e le capanne col tetto di paglia del Mali.
Rivedo il sudore sulla pelle dei “cavalli umani” di Calcutta e le giacche impeccabili degli agenti di cambio a Singapore; riascolto l’eco dei cormorani sulle spiagge dell’Oregon e il vento delle notti nel Sahara, i canti che accompagnano le cremazioni sui ghat di Benares e le balalaike di un’orchestrina improvvisata a Novosibirsk; riascolto gli spari di una carica della polizia sui dimostranti di Dhaka e le kora ipnotiche dei griots senegalesi, lo sciabordio delle onde sulle rovine dei forti coloniali in Ghana o a Timor e lo squittio dei topi nelle basse case di legno a Kathmandu…
E rivedo la mia faccia cotta dal sole, la mattina del 5 maggio 2001, quando mettevo in posa la Vespa nel porticciolo di Hobart, Tasmania, per una fotografia con l’autoscatto, e mi sforzavo di archiviare mentalmente anche questo lunghissimo raid, che in certi momenti mi era quasi sembrato potesse durare in eterno e che invece si era ormai concluso: avevo tolto i bagagli dai portapacchi, e non ce li avrei più rimessi il giorno dopo. C’ero riuscito; ma come al solito una malinconica “sindrome da arrivo” si accompagnava alla gioia di un “Missione compiuta”, alla soddisfazione di un “I made it, I made it!”.
Era già successo a Saigon, in occasione del mio primo raid in Vespa, dall’Italia al Vietnam, tra il 92 e il ’93; si era ripetuto sulla linea di traguardo del secondo, dall’Alaska alla Terra del Fuoco, tra il 94 e il 95, e poi ancora a Città del Capo, alla fine del viaggio dall’Australia al Sudafrica, 95-96; e adesso sul lungomare di Hobart accadeva la stessa identica cosa: molta gioia e altrettanta tristezza, perché il viaggio era finito.
Sarà vergognosamente sentimentale, ma è proprio così: 144.000 chilometri (che con quelli dei tre viaggi precedenti facevano ormai 254.000) per arrivare a capire una volta di più di non averne ancora abbastanza, di non avere ancora raggiunto una “pace dei sensi” su due ruote; di voler ripartire!
Da quando mi ero lasciato alle spalle Ushuaia, 1340 giorni prima, avevo incrociato otto volte la linea immaginaria dei Tropici e quattro volte quella dell’Equatore; avevo attraversato tutta l’America meridionale e quella centrale, gli Stati Uniti coast to coast, la Siberia, l’Europa e l’Africa dal Marocco a Città del Capo, e poi da lì sulla costa orientale fino a Gibuti; l’Asia continentale dallo Yemen a Singapore, l’Indonesia da Sumatra a Timor, l’ovest dell’Australia da Darwin a Melbourne, e poi l’arrivo in Tasmania, collezionando Capo Horn, Capo Nord, il Capo di Buona Speranza e il South East Cape nel palmares di questo viaggio, con la complicità di settemila litri di benzina (litro più litro meno) e centocinquanta chili d’olio per motori a due tempi.
Avevo congiunto Ushuaia e Hobart via terra, smontando dalla sella soltanto in pochissime occasioni per “guadare” piccoli corridoi acquatici come lo Stretto di Bering o quello di Gibilterra, il Golfo di Aden, lo Stretto di Hormuz e il ponte naturale delle isole indonesiane tra Asia e Oceania, attraversando i sei continenti (con la sola esclusione dell’Antartide… per ora) con una lunghissima e sinuosa linea di pennarello nero sulla mappa del Mondo.
Avevo arrancato a passo d’uomo nel deserto del Sahara in Mauritania e nella taiga siberiana tra Magadan a Jakutsk, nella foresta pluviale in Camerun e sugli sterrati di quella amazzonica; avevo subito un sequestro di tre giorni e un furto generale da parte dei ribelli congolesi sulla strada per Brazzaville e cinque aggressioni: a Medellin, Mosca, Varsavia, in Gabon e in Namibia; un brutto incidente sul confine cambogiano con due mesi di stop forzato e il radio e l’ulna del polso sinistro spezzati come due grissini; ero passato dal caldo soffocante del Messico o dell’Oman al gelo dell’Alaska o della Kolyma, dalla coltre di neve sui Pirenei alla sabbia e alla polvere di Timbuktu, costeggiando l’Atlantico e il Mare Artico, l’Oceano Pacifico e quello Indiano…
Dalla Terra del Fuoco avevo seguito la dorsale della Cordigliera delle Ande, prima nella Patagonia argentina poi sul versate cileno fino a Santiago; poi avevo riattraversato le Ande e la pampa per raggiungere Buenos Aires e Montevideo, e cominciare la lunga galoppata sulla costa atlantica del Brasile, che mi porterà a San Paolo e Rio de Janeiro, Salvador de Bahia e Recife, Belem e Macapà sull’estuario del Rio delle Amazzoni: diciotto stati brasiliani e 7000 chilometri in poco più di cinque settimane.
Poi la Guyana Francese e il Suriname, la Guyana ex britannica e una deviazione a Trinidad &Tobago per trovare il modo di arrivare in Venezuela (non c’è una strada che congiunga via terra Georgetown a Caracas). Tutto il nord della Colombia, con le azioni terroristiche dei guerriglieri che in quella settimana, alla vigilia delle elezioni per la nuova maggioranza legislativa, avevano raggiunto i livelli di una vera e propria guerra civile, e da Turbo su un minuscolo aereo biposto (tanto minuscolo che avevano dovuto togliere il sedile posteriore per fare posto alla Vespa) sorvolare i 200 Km di foresta impenetrabile del Darien, tra Colombia e Panama.
Da lì in avanti, dopo il Costa Rica, attraverso fino alla frontiera col Messico e piccoli stati una volta poveri e incandescenti e adesso soltanto poveri di Nicaragua, Honduras, El Salvador e Guatemala, per farmi raccontare dai loro abitanti qualcosa delle tragedie in cui sono passati recentemente e quelle che sono le loro (poche) speranze per un futuro migliore. Visito il complesso archeologico maya di Tikal, lo spettacolare mercato indio di Chichicastenango in Guatemala, e agli inizi di aprile del ’98, dopo oltre cinque mesi di viaggio, porto le ruote della Vespa nel Chiapas messicano, per proseguire subito in direzione della capitale, di Guadalajara e della frontiera statunitense di Laredo.
Altri due mesi per sbrigare la “procedura” Usa, sulle cui strade ci sono forse troppe comodità per il modo di viaggiare che preferisco, quello fatto di sterrati difficili e di continue “scomodità” che al momento ti sfiancano ma che poi, retrospettivamente, s’impongono nel ricordo e acquistano i contorni di veri highlights all’interno di un itinerario. New York-San Francisco; Seattle-Vancouver, la British Columbia e lo Yukon canadese, l’Alasha Highway fino ad Anchorage.
E lì, nell’ultima settimana di giugno, ricevo l’ennesima “tegola burocratica” sulla testa, la più conflittuale e difficile da risolvere tra quelle che finora avevano accompagnato i miei viaggi in Vespa, scandendoli con una regolarità esasperante. Il visto di tre mesi per la Russia, arrivatomi proprio in quei giorni da Mosca dopo una lunghissima trafila di mezzi dà! e interi nièt!, tra le sue mille clausole scritte rigorosamente in cirillico impone che io sdogani lo scooter soltanto a Mosca o a Pietroburgo, e in nessun’altra città dello sconfinato paese.
Che fare?, o meglio: Shto Diélat?, come nell’omonimo titolo di Chernechevski. Non ho molte alternative, a essere sinceri: o lasciare perdere del tutto la Russia e volare con la Vespa a Tokyo, per riprendere da lì l’avvicinamento all’Europa lungo un percorso totalmente diverso, o volare a Mosca come mi viene imposto e da lì attraversare tutta la Siberia “a marcia indietro” fino a Magadan, per ricongiungere così idealmente, in senso inverso, l’itinerario così brutalmente spezzato da quella rasoiata burocratica; poi rivolare a Mosca e proseguire verso la Finlandia…
Dopo due giorni di frenetiche telefonate in Italia, mi viene consigliato di optare per la seconda soluzione, a dispetto del suo folle zigzagare avanti e indietro attraverso 9 fusi orari (che alla fine diventeranno la bellezza di 26 in poco più di due mesi, 18 in aereo inframmezzati da 8 percorsi via terra!). E così il 3 luglio la Vespa e io atterriamo al Sheremetevo II di Mosca, e ancora con la cintura di sicurezza allacciata intorno alla vita formulo tra me e me una sacrosanta promessa: “A Magadan, quanto è vero Dio!”.
Ci impiegherò 70 giorni, in condizioni climatiche decisamente favorevoli (un’estate siberiana, a quella latitudine, non è più fredda di un’estate nel nord dell’Europa, cioè quasi calda) passando per Celjabinsk e Omsk, Novosibirsk e Krasnojarsk, Ust-Kt e Lensk, Jakutsk e i 2000 chilometri di sterrato allucinante, conosciuti come la Via delle Ossa per l’altissimo prezzo di vite umane pagato alla sua costruzione voluta da Stalin, in una zona tra le più tristi e grigie che ci siano sulla faccia della Terra… ma a dispetto di ciò la bruttissima Magadan, una volta raggiunta, avrà per me le connotazioni di una Terra Promessa!
Di nuovo Mosca, e Capo Nord, e tutto un inverno passato ad attraversare 18 nazioni europee fino ad Algeciras in Spagna e Tangeri in Marocco. L’ex Sahara Spagnolo, Laayoune e Dakhla fino al confine con la Mauritania; poi, da Nouadhibou alla capitale Nouakchott, la pista sparisce tra le dune del deserto per 500 Km, che impiegherò dodici giorni a coprire, con una tanica d’acqua da 25 litri che regolarmente stava finendo quando un buon samaritano francese al volante di una Toyota me la riempirà di nuovo rimettendomi in sesto dopo quattro giorni passati nella più completa solitudine, senza veicoli all’orizzonte: undici notti passate a dormire sulla sabbia, sotto un cielo vitreo bucherellato di stelle.
Una volta a Nouakchott tiro un po’ di fiato e mi preparo a scendere in Senegal, Gambia, Guinea-Bissau (la guerra civile era finita soltanto pochi giorni prima), Guinea-Conakry, Mali e Burkina Faso, per ritornare nuovamente sull’Atlantico ad Accra, in Ghana, dopo aver “costeggiato” per trecento chilometri la tragedia della Sierra Leone (in alcuni punti era la strada stessa a fare da confine) e aver aggirato quella della Liberia. Ancora Togo, Benin, Nigeria, Camerun e Gabon; e poi il mio viaggio sarà interrotto da armi più devastanti di quelle della burocrazia ex sovietica…
Tre giorni di prigionia nelle mani dei ribelli congolesi, e tre notti insonni delle quali ognuna avrebbe potuto essere l’ultima; nulla nello stomaco e solo una brocca d’acqua fangosa gentilmente offertami dai carcerieri insieme a reiterate minacce del tipo: “Preferisci che ti ammazziamo col kalashnikov o a colpi di machete?”, oppure: “Hai ancora un’ora di vita, bianco di m@@@a!”.
Poi, inaspettatamente, il capo dei ribelli aveva deciso di non giustiziarmi, ed ero stato rimesso in libertà per ritornare a piedi alla frontiera col Gabon, senza più niente di quello che avevo, senza la Vespa che mi aveva accompagnato per 76.600 dalla Terra del Fuoco fino a lì, né computer né macchine fotografiche: solo la vita e i jeans che avevo addosso… mi avevano anche tagliato i capelli per farne treccine posticce, naturali e non sintetiche, da regalare alle donne della ribellione!
Tornato in un modo o nell’altro a Libreville, per la serie “le disgrazie non vengono mai da sole”, comincio a tremare nonostante il caldo soffocante, a sudare freddo e sentire convulsioni in tutti i muscoli, a rabbrividire in una febbre parossistica, simile al delirio. Ecco fatto: la malaria!
Ventitré mesi più tardi, tornato in Italia dopo aver raggiunto la Tasmania con un’altra Vespa speditami a Luanda, Angola, e sulla cui sella rimarrò seduto per altri 68.000 Km percorsi in altre 28 nazioni, scrivo un libro che spontaneamente finisce proprio qui, in Congo, con questa brusca cesura di sequestro e malaria nello spazio di pochi giorni; sarà pubblicato nella collana Traveller di Feltrinelli col titolo Brum Brum, 254.000 chilometri in Vespa…
E ce ne sarà un altro, una sorta di “Brum Brum 2”, per raccontare il resto della storia di questa Worldwide Odyssey, di come in meno di un mese ero già perfettamente ristabilito dalla malaria e, pieno di un nuovo entusiasmo, mettevo in moto una Vespa nuova fiammante ed ero di nuovo su due ruote, mentre il recente ricordo della cella di due metri per uno e del coltello a scolpirmi una grottesca acconciatura si stava sbiadendo sempre di più… I capelli, tra l’altro, stavano già ricrescendo!
Per raccontare dell’Angola fino a Lubango, della Namibia e del Sudafrica, del Mozambico e del Malawi, della Tanzania, del Kenya e dell’Etiopia; di Gibuti e dell’arrivederci all’Africa, dopo tredici mesi passati in 30 delle sue nazioni, la metà delle quali in guerra o reduci da una guerra o pronte per entrare in un’altra guerra; del passaggio in Yemen e in un altro continente, e poi l’Oman e gli Emirati; e l’Iran, il Pakistan e l’India, per la terza volta a bordo di uno scooter in dieci anni.
E di un’amore trovato a Kathmandu, una ragazza di Taiwan che prima diventerà mia compagna di viaggio fino a Giakarta, per cinque mesi, e poi mia moglie, e spero per sempre. Per raccontare del Bangladesh, della Birmania e della Thailandia, della Cambogia, della Malesia, di Singapore e dell’Indonesia, dell’Australia e di quel “Missione compiuta!” sussurrato con più malinconia che orgoglio a Hobart, con il viaggio che finiva e la voglia prorompente che ne potesse cominciare un altro.
E intanto ci saranno anche un libro fotografico e un cd musicale con tredici canzoni composte in giro per il mondo, e così i prossimi mesi se ne voleranno via tranquilli, persino piacevolmente. Ma sono sicuro che non passerà nemmeno un giorno senza che io pensi al nuovo viaggio, il quinto, che è già chiarissimo nella mia testa, e che non vedo l’ora di iniziare nella realtà: partenza da Pontedera, marzo o aprile del 2003, e arrivo… a Roma nel marzo o aprile del 2007, dopo essere passato in tutti i 193 stati sovrani di questo nostro piccolo, grandissimo mondo.
Ecco il vero problema per un vespista di lungo raggio: una volta partito non riesce più a stare fermo! Quella gioia ineffabile dell’allontanarsi; quell’arrivare di sera in un villaggio dal nome sconosciuto o familiare, e sapere già che l’indomani sarai in un altro villaggio o città o cittadina, e il giorno dopo ancora in un altro lontano da quello del giorno prima; e la consapevolezza altrettanto ineffabile che tutto questo possa continuare per mesi, per anni, sulle ali di un eterno, immutabile presente, con il viaggio che si fa da solo chilometro dopo chilometro, che si dipana come il filo di una matassa; con la strada che più si allunga e più diventa corta, e più ti si accorcia tra le mani e più vorresti che si allungasse, perché non è ancora abbastanza… Do you know what I mean?
[hr]
No, non lo so cosa volevi dire, perché non ho fatto e mai farò quello che hai fatto tu. Ma posso sicuramente immaginarlo ....
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credo che il pensiero di Maic fosse da intendere che il viaggio non puo' essere solo fine a se stesso altrimenti e' solo una fuga. spesso leggo di commenti entusiastici su chi fa una vita itinerante e finisce per fare invidia a chi invece conduce una vita piu' "normale".
io mi riservo il giudizio a dopo che avro' letto un po' dei link che ha postato futurossa
io mi riservo il giudizio a dopo che avro' letto un po' dei link che ha postato futurossa
quannu lu furnu è callu basta na fascina
- lupin3
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Secondo me Maic, chiunque viaggiando molto diventerebbe una persona migliore e ovviamente non mi sto' riferendo alle classiche ferie in giro tra villaggi turistici e viaggi organizzati.Maic ha scritto:Sì, ma tutto questo viaggiare lo hai poi reso una persona migliore?!
In questo caso, un grande esempio per chi ama il viaggio come scoperta di nuovi posti e di se stessi
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